Gemma Chang: noi, ragazze asiatiche a Hollywood

Inglese di origini cinesi, fino a poco tempo fa per le attrici come lei non c’erano ruoli da protagonista. Oggi Gemma Chan, vincitrice del Women In Film Max Mara Face of the Future Award 2020, dice che qualcosa sta cambiando. Ma la strada (per tutte le donne) è ancora lunga
Gemma Chang noi ragazze asiatiche a Hollywood

Gemma Chan è una di quelle attrici che se la incontri una volta non te la scordi più. Per essere bella, lo è eccome, ma non è l’aspetto fisico quel che rimane impresso di lei. Trentasette anni, nata e cresciuta in Inghilterra da genitori cinesi, che si sono disperati quando dodici anni fa ha messo da parte la sua laurea in legge a Oxford per buttarsi nella recitazione (e che oggi sono i suoi più grandi fan), Gemma fa breccia per la sua grazia interiore.

Abbiamo appuntamento in uno degli alberghi più chic di Milano, dove è venuta per assistere alla sfilata di Max Mara, il marchio italiano che ha un rapporto molto stretto con Hollywood, visto che da diciotto anni a questa parte sponsorizza il gala annuale di Women in Film, l’organizzazione no profit creata nel 1973 per supportare le donne nell’industria del cinema e dello spettacolo. E che nel 2006 ha istituito un premio, il Women In Film Max Mara Face of the Future Award, andato in passato a dive come Emily Blunt, Elizabeth Banks, Zoe Saldana, Katie Holmes, Rose Byrne e Hailee Steinfeld, tutte scelte nel momneto in cui la loro carriere stava per decollare.

Proprio come accadrà a Chan, a cui andrà il premio del 2020. Mentre la attendo sprofondata in un divanetto, Gemma mi passa davanti elegantissima in tailleur-pantalone e tacchi alti, tenendo in mano un paio di sneakers di ricambio. Al suo posto, molte star le scarpe da ginnastica le avrebbero appioppate a qualcuno dell’entourage, lei non si fa problemi, se le porta dietro con garbo.

Tante parti in serie tv, piccoli ruoli in film importanti come Jack Ryan - L’iniziazione di Kenneth Branagh, il prequel della saga Harry Potter, Animali fantastici e dove trovarli, e un personaggio significativo in Crazy & Rich: qual è la qualità che più la sta aiutando a costruire il suo successo?«Se parliamo di ascesa professionale, credo che dipenda dal mio grande impegno, dall’etica del lavoro e dal fatto che sono naturalmente empatica, il che mi aiuta a immergermi nel personaggio. Ma riuscire nella vita è molto diverso. Sono arrivata a un punto in cui la mia definizione di successo è cambiata. Oggi dipende soprattutto dalla capacità di vivere sentendosi realizzati, anche se nessuno sa chi sei. Di essere contenti di ciò che si fa».

E lei lo è?«Quando alla fine di una giornata sul set sento di aver dato il meglio in ogni scena e di aver saputo cogliere l’inaspettato, lo sono sicuramente. Lasciarsi andare alla magia dell’improvvisazione è una delle cose che mi appaga di più».

Si improvvisa spesso durante le riprese?«Ho da poco finito di girare Let Them All Talk (Lascia che par- lino, ndr), un film di Steven Soderbergh in cui sono co-protagonista insieme a Meryl Streep, Dianne Wiest e Candice Bergen. Il regista voleva che ogni dialogo fosse spontaneo, perciò ave- vamo solo un canovaccio a cui attenerci. Non potrò mai dimen- ticare il primo giorno di riprese, in cui dovevo girare una scena da sola con Meryl e toccava a me far andare avanti il dialogo, che esperienza elettrizzante».

Che tipo è Streep come compagna di scena?«È una collega molto generosa e vuole davvero aiutarti a tirare fuori il meglio di te. Non è per niente egoista, si muove solo per il bene del film. È stato anche molto istruttivo vedere come si prendeva tutto il tempo necessario. Se sentiva di non avere ancora dato il massimo, in tutta tranquillità diceva: “Lasciatemelo rifare”, e lo rifaceva senza agitarsi. Mi ha fatto riflettere, perché mi è capitato in passato di avere paura di metterci troppo nel girare una scena e di affrettarmi. È come se lei mi avesse dato la licenza di fare con calma».

La sua carriera ora si sta davvero consolidando, ma se si guarda indietro quanto è stato difficile arrivare fin qui?«Quando ho iniziato non avrei mai immaginato di poter raggiungere dei traguardi così grandi. Gli scenari del settore sono cambiati tantissimo in questi ultimi anni, oggi anche una persona asiatica come me può aspirare a parti da protagonista. Dopo aver finito la scuola di recitazione, in tanti mi avevano consigliato di trasferirmi a Hollywood, perché nel Regno Unito dicevano che c’era poco spazio per una che non era la tipica faccia inglese. Oggi per fortuna è diverso, anche se ci sono ancora molte battaglie da combattere».

Per esempio la condizione delle donne in generale nell’industria del cinema?«Le cose sono migliorate, eppure, per esempio, una regista candidata agli Oscar resta un caso isolato. Dobbiamo diventare ancora più consistenti, ma soprattutto dobbiamo conquistarci il diritto di sbagliare. Se è una donna a prendere una cantonata in un film, non è detto che le venga data una seconda chance, cosa che invece accade più spesso con gli uomini».

Lei è anche tra le protagoniste del cinecomic Gli eterni, il film del mondo Marvel diretto da Chloé Zhao, ispirato a un fumetto di Jack Kirby degli anni ’70 e in uscita nel 2020. Come si è preparata al personaggio di Sersi?«Non ho un metodo preciso per calarmi nella parte, a volte è una musica che mi fa entrare in risonanza, oppure individuo come dovrà camminare, o parlare, e da lì costruisco il resto. Nello specifico è la storia di un gruppo di alieni immortali, arrivati sulla Terra settemila anni fa, perciò la trama si svolge in un lasso di tempo lunghissimo. Sersi è quella che ha più affinità con gli umani, anzi è addirittura coinvolta in due storie d’amore, una novità assoluta per le vicende Marvel e uno dei motivi che mi hanno attratta di questo progetto».

Condivide con Sersi questo amore per l’umanità?«Ci sono giorni in cui non sono così ottimista. Vedo accadere cose terribili a livello politico ed ecologico, eppure sento che dobbiamo avere speranza. Non possiamo permetterci il lusso di disperare».

Ma se dovesse descrivere gli umani agli alieni, cosa direbbe?«Che siamo un work in progress. E siamo molto complicati».

Foto: MAX VADUKUL Servizio: NICOLETTA SANTORO